8 marzo 2024: c’è ancora una questione di genere?

A cura di Luigi Zumbo
08/03/2024
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Le regole implicite del giornalismo vogliono che a un titolo formulato con un interrogativo, la risposta elaborata nel testo, sia sempre un “SI”. Questa volta è la domanda a essere sbagliata. 

E’ ancora una questione di genere oppure riguarda un modo di concepire la realtà privo di ogni costrutto sociologico, economico e in definitiva scientifico? E’ possibile che chiunque non comprenda, quanto la questione professionale sia solo la parte più evidente di un problema che ha solide radici in ogni angolo della società?

Non cadiamo nella tentazione di bollarla solo come una questione culturale, perché altrimenti si corre il rischio di consumare parole e tavole rotonde, buone a guarire le coscienze. Se esistesse una classifica degli argomenti che mette in rapporto il numero di parole spese con i risultati ottenuti, la questione probabilmente occuperebbe gli ultimi posti. A fiumi di parole e sentimenti, alcune volte anche sinceri, non è mai corrisposto un vero cambio di passo. Almeno non Italia.

Stiamo al gioco. Proviamo a commentare la difficoltà per il genere femminile ad ambire alla realizzazione professionale. A fronte di dati occupazionali per la nostra professione, che fanno registrare scarti non significativi tra uomo e donna, le posizioni strategiche, invece vedono una preponderanza netta del genere maschile. Nella sola pubblica amministrazione, il 33,8% delle posizioni dirigenziali apicali è attualmente occupato da donne. Difficile fare un calcolo sul settore privato, ma altrettanto difficile è immaginare che questo dato possa essere più generoso. Infatti, l’ormai cronico deficit di welfare che incide in modo maggiormente rilevante sul settore privato e sulle famiglie, non può che penalizzare il percorso di normalizzazione del gap di genere.

E’ così che il deficit da culturale diventa strutturale e che il perimetro del dibattito pubblico rischia di diventare il solito gender washing. Buono per post sui social o per la commercializzazione di un nuovo prodotto dedicato alla donna, ma non particolarmente utile alla richiesta di asili nido che permettano di coniugare l’esistenza contestuale di un desiderio genitoriale con le ambizioni professionali. E’ questo è solo uno tra gli esempi che ogni donna potrebbe raccontare e che porterebbero al nocciolo della questione e che in definitiva è questo: la nostra cultura lavorativa si basa sulla competizione e questa ha un senso solo se le regole sono uguali per tutti. Se nel gioco della competizione abbiamo (forse) smesso di tenere fuori le donne, abbiamo anche permesso che queste partissero con qualche decennio di svantaggio.

Oggi, 8 marzo, l'Albo Unico affidato alla Federazione riporta un totale di 35.380 iscritti: 17.988 donne e 17.392 uomini. Non è sempre stato così. Il numero di donne medico veterinario è cresciuto in modo costante e significativo negli ultimi 30 anni, raggiungendo e poi superando il numero di uomini. Questo dato è un indicatore di determinazione e di preparazione che deve farci riflettere. Siamo pronti a rinunciare a una tale ricchezza solo perché non abbiamo il coraggio di ristrutturare un sistema che porta il peso di decenni di arretratezza culturale? 

Forse questa era la domanda giusta da porre nel titolo di questo microscopio.

Anche per questo 8 marzo ne abbiamo parlato troppo e fatto troppo poco.

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